L’uso murale di “sucaminchia”: la parafrasi dell’opera
C’ERA UNA SVOLTA di Mattia Iachino Serpotta
L’uso murale di sucaminchia, ], che segna probabilmente una frattura insanabile con la poesia romanza e rinascimentale.
Eppure, il verbo “sucare”, evoluzione dialettale di “succhiare”, dal latino “suculare”, letteralmente “aspirare e ingerire un liquido”, in sé considerato, non ha alcuna carica volgare.
Ne “La sucalora”, ad esempio, il Maestro Brigantony sostantiva il verbo per indicare il biberon, inteso come simulazione artificiale del seno materno. Qui “sucare” richiama, dunque, il gesto primitivo dell’allattamento: “…e sucamu sucamu sucamu, ca sucalora narricriamu, a su… a su… a su… a sucalora, a su… a su… a su…a sucalora”. Nessuna volgarità sottointesa, dunque, nonostante il Maestro, altrove, si muova spesso sul filo dell’ambiguità.
Persino come prefisso della parola “minchia”, il “suca” di “sucaminchia” è, di per sé, privo di carica offensiva e affatto volgare, descrivendo piuttosto una pratica sessuale che rappresenta l’ovvio, l’ordinario, il minimo sindacale all’interno di qualsiasi rapporto di coppia.
Il “suca” di “sucaminchia”, al contrario, questo sì, può acquistare una valenza dispregiativa nella sua declinazione plurale: “sucaminchi”, appunto, con una sorta di apocope della e finale, rispetto alla più corretta formalmente “sucaminchie”.
Qui la “minchia” di sucaminchi è figura retorica, precisamente una sineddoche. Si indica cioè una parte per rappresentarne il tutto. Sucaminchi significa, infatti, chi si concede a più persone, quindi al di fuori di un rapporto di coppia stabile ed esclusivo. E’ la poligamia del comportamento, insisto, a qualificare la volgarità della parola e non la parola in sé.
Ricapitolando. Esempio non dispregiativo: “La mia ragazza è una sucaminchia”. Esempio dispregiativo: “Lassa stari, chidda è na gran sucaminchi”.
Nella stessa direzione, e chiudo il ragionamento, si giudichi infine il “suca a minchia sottointesa”, che esprime ostentazione spavalda di superiorità di un uomo su un altro uomo o, a dire il vero molto raramente, di una donna su un’altra donna. Esempio:
− Io sono più bravo di te a giocare a pallone.
− Avaia, tu, a mia, ma suchi.
Ecco, anche qui, il “suca” − che sarebbe in sé inoffensivo, ribadisco, anche rispetto a un rapporto di coppia omosessuale, specie alla luce del recente riconoscimento giuridico contenuto nella legge Cirinnà – acquista purtroppo una carica di volgarità intellettuale, in quanto elegge il gesto del “sucare”, inteso quasi a simulare una spirometria, a sinonimo di prevaricazione e di dominazione dell’uno/a sull’altro/a: “io sono più forte, più bravo di te, quindi tu me la suchi”.
In questa poesia di strada, invece, si profila un’accezione alternativa di “sucaminchia”, che non ha nulla a che vedere con quanto sinora detto. E’, infatti, utilizzato per veicolare uno stato d’animo. Il che è tipico del sucaminchia a Catania.
L’autrice usa il “sucaminchia”, infatti, come contraltare al fatto che il suo uomo porta i risvoltini ai pantaloni. E lei, appunto, da una parte protesta, dissente, riprova in cuor suo, ma dall’altra riafferma l’amore.
Va, dunque, inteso così il sucaminchia: io ti amo, anche se, sucaminchia (sottointeso “di te”, variabile di “sucaminchia delle carte”), tu ti fai i risvoltini ai pantaloni.
Ed è questo il tema centrale della poesia: non l’amore in sé, il che può spesso apparire scontato, ma l’amore nonostante: il risvoltino, appunto.
In principio, era il pinocchietto, un capo obiettivamente inutile in termini stilistici, ma che ha sdoganato negli anni l’idea che ci fosse della bellezza estetica anche nell’espressione della nudità di pelle tra la tibia e il tallone maschile.
Si è così arrivati, in tempi recenti, alla pratica barbara del risvoltino verso l’esterno e, cosa a mio avviso ancor più grave, a una sorta di anarchia dell’orlo, con la pratica inversa dei pantaloni venti misure più corti.
In entrambi i casi, il risultato finale è complessivamente lo stesso: jeans portati sopra il malleolo, a uso Sampei, e un appannamento del gusto, di cui la moda è soltanto una divagazione. Lì dove finisce il pantalone finisce in realtà il maschio.
Questo fenomeno, ahimè, è avvenuto a tutti i livelli della scala sociale.
Un tempo, camminando per la via Plebiscito, un uomo non avrebbe mai accettato di farsi i risvoltini. Avrebbe anzi risposto con una frase carica di megalomania: “mpare, non mi fazzu i risvoltini, annunca mi nesci a cedda”. Allo stesso tempo, quell’uomo non avrebbe neanche indossato pantaloni troppo corti, perché si sarebbe esposto al pubblico ludibrio: “mpare, allungasti stanotti o to mugghieri ti stringiu i jeans nda lavatrici?”.
Si è invece oggi, purtroppo, ultimato un processo di fashionizzazione irreversibile di tutte le classi sociali, con azzeramento di ogni differenza stilistica tra i diversi scalini. Quindi, anche il mammoriano, abbandonando definitivamente tute acetate o in polipropilene, si è sentito legittimato a indossare i pantaloni sopra il suo di malleolo, calpestando le banchine di via Plebiscito come se fosse via Montenapoleone.
Ecco, arrivati a questo punto, io credo che la soluzione possa essere soltanto una. Fare come in Corea. Lì, se tu cammini con i pantaloni più corti, diciamo sopra la caviglia, King Kiong II ti manda i sarti di regime e, con una spada di Hattori Hanzo, ti tagliano le gambe, esattamente all’altezza della tibia.
A quel punto, si è costretti a stare in equilibrio, senza piedi, come sui trampoli, rantolando e sanguinando. Quindi, ti si avvicinano nuovamente i sarti di regime e ti gridano in coreano: “Visto? Adesso pantaloni cadele pelfetti”.