“LUI E’ MIO, ABBOLA SCUPINA”
La straordinaria parafrasi di Mattia Iachino Serpotta
Mi permetto di sottoporre alla vostra attenzionequesto breve sonetto d’amore, che,pur nella sua apparente brevità di contenuti e banalità di concetti, si segnala invece per la sua straordinaria poeticità. Dal punto di vista della metrica, il sonetto è composto da un verso pentasillabo, o quinario, e da due trisillabi in successione (trinario): LU-I- È -MI-O; AB-BO-LA; SCU-PI-NA.
Poesia e innovazione di contenuti si fondono in appena undici sillabe. Shakespeare in confronto era babbalecco. In un’epoca contraddistinta da tradimenti e promiscuità tra uomo e donna, complice anche un uso distorto dei social network, che alimenta certamente la difficoltà ad impegnarsi in un rapporto serio, maturo e duraturo, l’autrice contrappone, ribadendolo, il sentimento dell’appartenenza e del possesso a quello della protezione della “cosa propria”, di verghiana memoria.
L’autrice, superando dogmaticamente l’antica usanza di tirarsi i capelli tra donne, invita la rivale in amore a lasciar perdere il proprio amato: non “uottìnni” o “scoffa” o “non ti fari avviri chiui”, immagini e parole che dal punto allegorico avrebbero palesato il timore di un ritorno. Ma “abbola”, cioè letteralmente “vola via lontano”.
La chiosa finale conclude l’unicità di pensiero. L’insulto come sciabolata finale di un duello a livello semantico. “Scupina”. Variante dialettale al femminile di “scopino”, piccola scopa, arnese destinato alla pulizia del gabinetto. Degno di pregio è l’uso consapevole della gerarchia dell’offesa.
L’autrice vuole dire alla rivale: “Tu non sei un cesso, tu sei qualcosa di peggiore del cesso, tu sei ciò che viene utilizzato per pulire il cesso dalle sue impurità, tu sei addirittura peggio delle impurità del cesso”. E quel punto finale, in un’epoca in cui la punteggiatura è soppiantata dalle emoticon e dai puntini di sospensione buttati a sistiare. Quel punto diventa concetto.
Ed il concetto è: non ho più nulla da dire e tu, mia rivale, non puoi aver più nulla da dire.
Commento critico per La Liscìa Catanese di Mattia Iachino Serpotta